… E che vinca il lupo…

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Nel film “Il mio nome è Nessuno”, nato da una idea di Sergio Leone, che ne diresse alcune scene, vi è un aneddoto, narrato da Terence Hill, che mi rimase impresso.

Il fatto si riassume così: un pulcino infreddolito, sotto la neve invernale, rischia di morire assiderato, allorquando una vacca, impietosita, lascia andare su di lui una placca di caldo, fumante sterco, ricoprendolo tutto. Lieto dello scampato pericolo il piccolo volatile si mette a pigolare entusiasta, attirando, in tal modo, l’attenzione di un lupo affamato. Il lupo, allora, si accosta, toglie il pulcino dallo sterco, lo pulisce ben bene e poi lo mangia. Morale della favola: non sempre chi ti ricopre di sterco lo fa per il tuo male. Non sempre chi ti toglie dallo sterco lo fa per il tuo bene. Ma soprattutto, quando sei nello sterco fino al collo… stai zitto!

Memore di questa lezione di Sergio Leone farò, precisamente ed esattamente, tutto il contrario. Perché dovrei nascondere i miei fallimenti se, arrivato a questo punto del mio cammino, sono tutto ciò che ho?

E così le mie considerazioni, i miei sfoghi, si possono anche giustificare col mio solito spirito di chi va controcorrente per abitudine.

Il punto è che oggi, con le vite che vengono rese pubbliche per scelta degli interessati, è più o meno facile venire a sapere cosa fanno determinate persone: sono proprio loro a postare, nelle loro bacheche, le loro attività.

Ecco che, armato di una curiosità che non esito a definire suicida, mi sono messo sulle tracce di coloro che mi hanno reso la vita un inferno nel corso della stessa. Ed essendo io una vittima designata, uno che, anche se insofferente a questo destino, ha dovuto, non volendolo, sopportarlo per innumerevoli volte, il numero dei carnefici può farsi vanto di averlo ricco. Intendiamoci: non è vittimismo il mio, bensì rabbia mista ad incredulità, con un pizzico di amarezza al vetriolo.

Già, perché ho avuto la sorpresa di vedere come vivono, oggi, questi bulli senza scrupoli, che fecero della insensibilità e della malvagità la loro cifra stilistica.

C’è chi ha avviato una fiorente attività di complementi d’arredo artigianali. Qualcun altro si trova presso un brand automobilistico di fama storica e noto in tutto il mondo. Altri ancora non sono giunti a quei livelli, ma possono, ugualmente, essere fieri della loro professione di guardie municipali o poliziotti. Cionondimeno spiccano, pure, professionisti in certuni settori della medicina, organizzando simposi dedicati alle scoperte nel loro campo.

Quello che mi ha colpito più di tutti, però, è stato l’ultimo che ho rintracciato: figlio di un padre noto e stimato barone dei camici bianchi, ma con velleità artistiche, e di una madre totalmente dedita ad Euterpe, intraprende, a sua volta, le orme dei genitori, studiando e diplomandosi presso la più prestigiosa Accademia nazionale. Ora egli è talentuoso autore, acclamato e richiesto in ogni tipologia di spettacolo e performance, vincitore di premi, targhe e trofei.

Credo che, a questo punto, qualcuno, malignamente, insinuerà che è null’altro che il livore, l’invidia, la gelosia a guidare la mia penna intrisa nel curaro.

La risposta, candida, che do è: può darsi.

Perché, a leggere queste notizie, il mio animo si è riempito solo di incredulità e stupore: può una coscienza arida come la loro – perché come tali li ho conosciuti – dar vita a tutto questo? Certo, la gente cambia, è vero. Eppure vi posso assicurare che il fanciullino lumeggiato da Pascoli, dentro di noi, non muta. Ed il mio fanciullino, quello dentro di me, sogguarda ciò che accade agli altri ex fanciullini carnefici con spirito ferito dalla ingiustizia dichiarata di questa vita, in questo mondo.

Ingrata terra perché non ti apristi? Le lezioni che si apprendono continuamente in cotale contesto umano ci dicono e confermano che è così da sempre: legge immutabile e crudele di questo regno che comprende ogni popolo ed ogni latitudine.

Morale, come per la favoletta narrata da Terence Hill: vittima una volta vittima per il resto della vita. Chi è bullizzato sviluppa, giocoforza, un senso incancellabile di inaffidabilità ed inadeguatezza che lo relega per sempre in un angolo. Ed anche se urli e ti ribelli alla tua condizione, come faccio io nonostante tutto e tutti, se sei privo di buone armi ti servirà a poco (dico questo per chi ha pronta l’accusa di imbelle fatalismo…)

Il mondo – questo lo dicono unanimemente gli studiosi – è inesorabilmente fatto per i bulli, per i vincenti. Se nasci vittima pagane lo scotto. 

 

Se mi discrimini io ti discrimino

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La gente giudica per stereotipi, ed è inutile negare l’evidenza.

La gente vede una persona per strada che si muove e parla in un certo modo e la classifica, senza sapere nulla sul suo conto.

Come è possibile tutto questo?

Non sono un sociologo e neppure uno psicologo o un antropologo, per cui non posso dare spiegazioni scientifiche su questo argomento: quello che mi interessa, qui, è analizzare il comportamento personale di fronte a questo fenomeno.

Una persona con disabilità viene classificata senza pensarci due volte come “persona con menomazione”: ci si sofferma, per caso, a riflettere sulla sua cultura, sulla sua sensibilità o sui suoi sentimenti? Assolutamente no: ha una menomazione, pertanto è inferiore.

Un anziano è visto, nella maggioranza dei casi, come un peso di cui liberarsi al più presto, nel migliore dei casi affidandolo a qualche badante, in casi estremi a qualche “struttura preposta”.

Al bar, o in qualunque altro luogo pubblico, solo sentendo parlare un avventore, si è portati a catalogarlo, ignorando totalmente la sua vita, magari piena di sofferenze e problemi, e la sua storia privata.

Ma c’è di peggio. A volte si incrocia qualcuno, mentre si cammina, e avviene una cosa stranissima: “Quella persona è stupida”, decide, arbitrariamente l’altro passante. Il motivo, o i motivi, sono conosciuti solo da chi ha formulato questo giudizio abusivo. E l’elenco delle ripartizioni è lungo: qualcuno (visto per caso, una volta sola!) può divenire, di volta in volta, cattivo, ignorante, disonesto e quant’altro.

Ebbene, questi giudizi sommari non mi hanno solamente stancato, ma mi hanno saturato, nauseato, schifato. A quale punto? Fino ad un punto inimmaginabile e perfino illogico. Ma non c’è nulla di logico nell’essere umano. Infatti molti sono convinti, da pacifisti seri, che non si debba rispondere a discriminazione con discriminazione: sono convinto, invece, del contrario, arrivati a questa parte del percorso. La mia reazione è da “cattivista” , ossia il contrario del termine dispregiativo “buonista”, che viene usato in maniera offensiva dalla destra per quelli di sinistra come me; in seconda battuta questo significa, anche, che sono un uomo di sinistra molto sui generis, se reagisco al male con il male. Del resto non avviene la stessa cosa in molte altre circostanze? Il timore immotivato che alcuni hanno per i cani o per certi insetti si spiega con un evento traumatico iniziale: se ci si fa male con una roncola, poi si sta alla larga dalle roncole.

Tu mi discrimini? Io discrimino te e tutti coloro che appartengono alla tua genia: parto con la classificazione anche io, cosa nella quale mi rifaccio anche al mio passato di archivista.

Sento già qualche voce dire: “Ma allora sei stupido? Qualcuno ti fa del male e tu reagisci adoperando le sue stesse armi ed isolando, a priori, persone che potrebbero essere anche innocenti? Ma che diavolo dici?”

Vero. Ho già detto più sopra che, in questo caso, non c’è niente di logico, ma solo di istintivo.

Però mi va di fare quello che mi pare, anche sbagliando. E poi chi è pronto a farmi queste obiezioni non mi sta, a sua volta, giudicando? Certo, ha più elementi per giudicarmi, però lo sta facendo in ogni caso.

Ecco perché detesto, quasi sempre, la compagnia dei miei conterranei e preferisco quella di coloro che vengono dall’altro capo del mondo: tale è la delusione che mi hanno dato quelli che si fregiano del titolo di “italiani” (cittadinanza nella quale non mi riconosco).

“Ma tutto il mondo è paese!” interloquisce la stessa persona che prima mi ha dato dello stupido. Verissimo, ma vivo in questo paese, e questo paese – lo ripeto – non mi piace.

Fino ad ora non ho conosciuto nessun sudamericano o africano o indiano che mi abbia trattato come mi hanno trattato quelli con i quali ho vissuto finora, e vi posso assicurare che ne ho conosciuti tanti anche di indiani, sudamericani ed africani.

Il male di giudicare arbitrariamente, fatevene una ragione, appartiene ai popoli occidentali, quelli “civilizzati”: è un retaggio di una certa morale cristiana e bigotta. Se poi certi atteggiamenti sono stati, nei secoli, assorbiti anche da altri popoli, questo dipende dalla colonizzazione che hanno subito proprio da parte degli occidentali.

Da anni, ormai, mi batto contro la violenza di ogni tipo: la criminalità comune ed organizzata, ma anche la microcriminalità, il bullismo e il mobbing, che possono sembrare minori rispetto alle prime, ma non lo sono.

In definitiva non mi piace, in linea di massima, la vecchia Europa, e soprattutto il posto in cui vivo: non mi piacciono i paesi occidentali ed occidentalizzati, come gli Stati Uniti: c’è ancora speranza per l’Africa e tutti gli altri paesi in via di sviluppo, se verranno liberati dalla fame, dalle guerre e dalla carestia nelle quali li ha costretti la popolazione europea. E riaffermo, con pervicacia, che il mio approccio con questo tema è del tutto personale, totalmente illogico, estremamente maligno e ribelle e, per certi versi, anche deprecabile: non fateci caso, è la mia natura malata.

Mai più bullismo?

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Ieri sera ho visto una puntata della nuova trasmissione “Mai più bullismo”, su RAI2.

Il bullismo è un tema che mi interessa molto da vicino, essendo stato a mia volta vittima sia di bullismo che di mobbing in età adulta. Ero curioso di vedere come avrebbe affrontato questo argomento un programma di una rete nazionale, sia pure in seconda serata.

Guarda caso l’episodio di cui si è parlato nell’inchiesta era ambientato a Massafra, un paese in provincia di Taranto, il centro in cui risiedo.

La storia in breve: un ragazzo che frequenta il quarto anno di un istituto superiore è ancora vittima di discriminazione e di scherno da parte dei suoi compagni. Il rimedio proposto dagli autori di questa inchiesta è stato un incontro fra la vittima ed i suoi carnefici: a questi ultimi sono stati mostrati  dei filmati che li riguardavano e che illustravano il loro comportamento deviante. Il tutto è stato fatto per far prendere loro coscienza dei loro errori: per trovare, infine, una soluzione comune, che ridesse dignità a chi è stato tormentato ingiustamente e consapevolezza del danno procurato dai suoi persecutori.

Il tutto si è concluso ritrovandosi tutti insieme per un cimento di sport estremo, allo scopo di far nascere un artificiale, ed artificioso, spirito di cameratismo.

Mia moglie – che è una insegnante – era accanto a me ed ha commentato laconicamente: “Fra meno di un mese saranno punto e da capo”. E devo dire che, pur non essendo io un tecnico, ho avuto gli stessi dubbi.

Troppo buonismo può far male, molto male. Una visione che vuole essere a tutti i costi ottimistica non può sortire risultati efficaci a lungo termine. Finita la puntata, spente le telecamere le cose riprenderanno il corso di sempre. E buonanotte ai suonatori.

Le botte e gli sputi che ho preso giù nel cortile del mio quartiere, con ragazzi che già sapevano cosa fosse la lotta amara del sopravvivere, ti insegnano tanto. Ti insegnano che, in certi casi, le metodologie psico-pedagogiche più all’avanguardia, fondate sulla fiducia ed il credito, servono a poco contro la banalità della violenza di tutti i giorni: in certi casi è più efficace la concretezza di un comportamento più punitivo.

L’ho già dichiarato e lo confermo: non sono un pacifista ad oltranza, perché è una cosa che va bene solo per le guerre reali. Il bullismo è un gesto di violenza, e come tale deve essere visto.

Il sopruso (ad ogni livello) va inteso come un vero e proprio reato, e in questo ottica è da perseguire. Pur salvaguardando l’importanza della persona, dell’individuo, l’azione va sempre biasimata e repressa. In partenza è giusto far comprendere gli sbagli, ma poi deve necessariamente esserci una catarsi: il bullo deve divenire, temporaneamente, vittima e rivivere sulla sua pelle il dolore procurato.

Solo un piccolo, misero briccone come me può capire appieno quanto male c’è in questi gesti, e soprattutto quale rimedio ci vuole.

Per questo il mio unico commento alla trasmissione della RAI è: “Mai più bullismo”, certo, ma con metodologie diverse.

Il male vincente

Male Evil

 

Scrivo questo articolo – che sento come un atto dovuto – per amore della verità e per amore di tematiche che mi sono care: quelle della violenza e della sopraffazione, dell’aggressività e dell’egoismo.

Fino a poco tempo fa, commettendo un gravissimo errore di valutazione, ero stato portato a giudicare la vita ed il mondo con dei parametri totalmente errati: credevo che il male fosse una eccezione ed il bene la regola. Ma era tutto il contrario.

Quando ero ragazzo non riuscivo a capire perché venissi calunniato con tanta pervicacia, visto che non facevo nulla di male, a fronte di tanti teppisti che erano addirittura ammirati nelle scuole che frequentavo: non conoscevo ancora quella che si chiama “fascinazione del male”. Il bullo è amato ed idolatrato, sempre, sia per paura che per sottomissione spontanea.

Le cose, su questa terra, sono regolate da criteri di individualismo: ognuno pensa a se stesso ed il suo assillo è quello di nuocere al prossimo per trarne un personale beneficio; tuttavia si può anche danneggiare gli altri solo per il gusto, puro e semplice, di farlo: esiste il piacere di fare il torto fine a se stesso.

Cercare di dare una spiegazione a tutto questo è impossibile: è un istinto atavico, ancestrale: nasciamo sgomitando e viviamo scalciando chi ci ostacola o potrebbe ostacolarci. È la legge della sopravvivenza del più forte. Una legge che ho sempre detestato per la sua crudezza.

Il male domina ogni cosa: ogni gesto che si fa, ogni parola che si dice, perfino ogni pensiero. Il male è vincente, mentre il bene perde sempre, in ogni caso. Ho già detto che il sentimento dell’amore è un sentimento artificiale, creato appositamente dalle varie religioni che si sono susseguite nella storia dell’uomo. Ma l’uomo non è nato per l’amore, bensì per l’odio. Questo è vero anche quando vediamo il bene vincere (spesso proprio nei luoghi cosiddetti “di fede”) e siamo spinti a dire: “Allora? Vedi quanto amore c’è?” Ebbene, anche in quel caso si tratta di una vittoria fittizia: o è ancora una volta il male, che si traveste sovente da bene (falsità, ipocrisia o bigottismo), oppure si tratta di una vincita temporanea, a fronte di una preponderanza di crudeltà.

Il male trionfa sempre: il male si esalta, il male avvolge tutto, il male prevale, signoreggia, domina e festeggia; il bene è discriminato, isolato, dileggiato, deriso, perdente: il bene è sempre vittima.

Ma questo non deve significare cedere le armi e non lottare. Proprio per questo motivo si deve combattere e si deve rischiare. Il male è più forte, il male è potente e inattaccabile, ma proprio per questo si deve stare dalla parte del più debole e di chi viene criminalizzato dalla malvagità: è facile stare con il boss, ma è difficile, molto difficile stare con chi subisce.

Le motivazioni alla base dell’eccidio di Monaco di tre giorni fa

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Si chiamava Ali Sonboly ed aveva diciotto anni l’autore della strage di Monaco, avvenuta nel tardo pomeriggio del 22 luglio.

Il ragazzo era un tedesco di origine iraniana ed era cresciuto in una famiglia modesta e tranquilla: il padre era tassista e la madre lavorava in un supermercato.

Ora le parole, come sempre in questi casi, si sprecano: delitto orribile; massacro inspiegabile; eccidio provocato dalla follia. Come al solito i giornali, la televisione ed internet si affollano di notizie, mentre i leader politici si affannano a far sentire la loro piena solidarietà al paese colpito. E questo è anche giusto, data la portata drammatica di questo evento.

Tuttavia sono in molti a sottolineare l’instabilità mentale di Ali Sonboly, fornendo la spiegazione del suo comportamento negli atti di bullismo che si sono consumati per anni ai suoi danni. E non vanno oltre.

Non si spingono più in là perché deve prevalere a tutti i costi la stigmatizzazione di quanto accaduto: piena solidarietà alle vittime, certo, ma nessuno si è chiesto se si poteva evitare?

E si poteva certo evitare se qualcuno si fosse preoccupato prima, molto prima, di Ali e di quanto stava soffrendo. Lo so che quello che sto dicendo mi mette in cattiva luce verso i colpevolisti ad oltranza, mi fa divenire un mostro rispetto a quelli che vogliono condannare e basta, senza alcuna clemenza.

A costoro, quasi tutti, rispondo che la partecipazione sofferta al dolore per la perdita di tanti ragazzi non significa dover negare comprensione anche ad Ali: perché anche Ali era un ragazzo, ed era un ragazzo con l’animo esacerbato dalla discriminazione e dal bullismo. Subito dopo la sua morte per suicidio alcuni suoi compagni di scuola hanno dichiarato candidamente che compivano atti di mobbing nei suoi riguardi.

Ebbene dico che sono questi ultimi che hanno provocato la mattanza di Monaco: sono loro che hanno perseguitato con ferocia un loro coetaneo, per il puro gusto della malvagità; loro complici sono stati tutti quegli insegnanti, educatori, autorità che non hanno fatto nulla di nulla perché ciò si verificasse. In parte questa è una colpa condivisa con i genitori dei ragazzi deviati che non hanno saputo educare alla accettazione umana i loro figli. A causa di tutte queste mancanze si è innescata una macchina di dolore che ha poi portato all’omicidio, alla morte.

Ora che tutto è accaduto non ci limitiamo a puntare il dito, ad accusare e giudicare: “È un assassino. È bene che si sia ucciso, altrimenti lo avremmo ammazzato noi”. Parole disumane per un gesto che ha perso ogni umanità.

Ali meritava attenzione, meritava la dignità che gli era stata tolta dalla stupidità e dalla violenza dei bulli: se a qualcuno fosse venuto in mente che anche lui era un adolescente degno di considerazione come tutti gli altri, adesso non staremmo qui a piangere tutti quei ragazzi scomparsi, ed avremmo un diciottenne sereno inserito nella società. Spero vivamente che tutto quello che è accaduto serva di monito, perché non si verifichi mai più nulla del genere.

IL LUPO DEI MARI E LA LOGICA DELLA SOPRAFFAZIONE

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Stamattina in televisione ho visto un vecchio film, IL  LUPO DEI MARI, con il grande attore statunitense Edward G. Robinson. Il film altro non era che la trasposizione cinematografica di un romanzo di Jack London: una storia che rispecchia molto della sua vita avventurosa, anche e soprattutto come marinaio.

Nel film, così come nel libro, emerge una visione della vita amara e terribile. Sulla nave il comandante (Lupo Larsen) esercita il suo potere con tracotanza, con estrema aggressività: il suo modo di gestire la nave è caratterizzato dal suo egocentrismo, dal suo non curarsi affatto della dignità delle persone che da lui dipendono. Egli vuole solo umiliare, mortificare, avvilire e lo fa con una violenza inaudita.

L’equipaggio, incitato in questo modo da lui a seguire il suo esempio, cerca sempre di far valere la legge del più forte: così il proprio compagno diviene solo un avversario da distruggere, da sottomettere, pensando solo a se stessi più che al bene della nave.

Così facendo si vede man mano decrescere (per uccisione, per suicidio) il numero di coloro che si trovano sul vascello: persone che sono lì per scelta e perfino per caso, poiché vi è anche inserito l’episodio  del salvataggio di un gruppo di naufraghi: ma coloro che spariscono possono essere anche molto preziose per il bene di tutti, e di questo non si tiene affatto conto.

Diciamo la verità: queste cose sono normale routine, da sempre, e non solo per chi fa il marinaio: eliminare chi lavora con te per essere i soli a primeggiare è una usanza atavica. Magari non a livelli così estremi come quelli descritti nel libro di London.

Tuttavia una cosa che dico sempre è: voler eliminare colui che ci disturba, che riteniamo un fastidio, da un gruppo è un gesto sconsiderato. La brutalità che sta nella sopraffazione dell’altro, a tutti i costi, vuol dire privare quel gruppo di un individuo che, con le sue qualità, potrebbe fare molto, dare molto perché quella compagine cresca e migliori.

È la logica deviante del bullismo, del mobbing, un fenomeno contro cui sto conducendo una battaglia da molto tempo; tuttavia mi è sembrato che coloro a cui parlo siano refrattari all’argomento. Credo che sia dovuto al fatto che, in genere, il bullo, il carnefice, sia più gradito della vittima: tutti, se viene loro chiesto, condannano il dispotismo e l’oppressione di uno o di pochi; in pratica, però, stanno dalla parte del torturatore, dalla parte del più forte, perché è vincente. La vittima è un perdente: un esempio da non imitare e, soprattutto, da non frequentare.